Lo sapevano tutti che era necessario, ma tanto il governo quanto l’opposizione non aveva il coraggio di prendersi in faccia la responsabilità di fronte all’elettorato delle gravi misure necessarie a superare questo grave momento finanziario del paese. Oggi viene a definirsi ulteriormente la manovra approntata da Monti, che domani la illustrerà con precisione al parlamento. In generale però la manovra comporterà una correzione dei conti pubblici di circa 75 miliardi di euro.
In realtà la manovra comporterebbe all’incirca 24 miliardi di euro, ma considerando nel complesso ciò che è stato fatto nel 2011 la cifra complessiva sale. Sarebbe la più pesante della storia italiana, superiore anche a quella varata con la manovra voluta dal Governo Amato (che era fra i papabili insieme a Monti alla vigilia della nomina del governo di unità nazionale) del 1992. L’intervento all’epoca costò allo stato ben 96 miliardi di lire (pari a circa 48 miliardi di euro odierni), ma con un impatto immediato sui conti, mentre invece la manovra di Monti avranno un impatto triennale.
Il decreto voluto da Berlusconi e Tremonti varato all’inizio di settembre pure aveva un valore di 54,2 miliardi, con conseguenze entro il 2013, a questo è stata poi aggiunta la “correzione” operata da monti con un aggravio di oltre 20 milioni di euro. Sommando le misure proposte negli ultimi venti anni l’Italia avrebbe visto una correzione dei propri conti per un totale di 460 milioni di euro!
Ritoccato quindi il podio delle manovre più pesanti di sempre, mentre quella di Monti sale al primo posto, quella di Amato del 1992 scende al secondo, mentre quella di Tommaso Padoa-Schioppa del 2006 scende al terzo posto (la manovra comportò una correzione di 35 miliardi di euro).
Intanto i partiti continuano a bisticciare su chi sia il vero sostenitore della manovra e tentare con la solita demagogia di addossare la pesantezza della manovra sugli altri onde ottenerne un futuro vantaggio elettorale. Decisamente anti-patriottico l’atteggiamento della Lega Nord, che insiste nel rifiutare di collaborare con il governo di unità nazionale.