Il pm Nino Di Matteo ha concluso questa mattina davanti al gup Piergiorgio Morosini, nell’aula bunker dell’Ucciardone, la requisitoria iniziata ieri mattina per la trattativa Stato-mafia, chiedendo il rinvio a giudizio di tutti gli 11 imputati, tra cui boss, alti ufficiali dei carabinieri e politici. Per il pm, “uomini dello Stato trattarono con la mafia in nome di un’inconfessabile ragion di Stato“. Diverse, quindi, le conclusioni di Di Matteo rispetto alla relazione conclusiva della commissione Antimafia presieduta da Beppe Pisanu e resa nota ieri. Le richieste di rinvio a giudizio riguardano i boss Leoluca Bagarella, suo cognato Totò Riina, Giovanni Brusca e Antonino Cinà, tre politici, ovverosia l’ex ministro Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza), tre ufficiali dei carabinieri, ovverosia i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, e Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco palermitano Vito, che deve rispondere anche di concorso in associazione mafiosa e calunnia aggravata.
La posizione di Bernardo Provenzano era stata invece stralciata nei giorni scorsi e il boss verrà giudicato dallo stesso gup Morosini il 23 gennaio, per via delle sue condizioni psichiche che gli impedirebbero di seguire le udienze. L’ex ministro Mannino ha chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, e il gup si è riservato di pronunciarsi in merito. Per i pm di Palermo, la trattativa avrebbe preso inizio dopo l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, considerato un avvertimento per tutta una classe politica che aveva tradito le intese con i mafiosi in seguito alle condanne del maxiprocesso.
Dopo Lima, sarebbero finiti nel mirino di Cosa Nostra altri politici ad essa vicini, il primo dei quali era Mannino. Sarebbe stato proprio quest’ultimo, quindi, a insistere affinchè lo Stato avviasse una trattativa, tramite l’allora comandante dei Ros Antonio Subranni. Sarebbero stati poi gli ufficiali Mori e De Donno a mettere in atto la trattativa, con il tramite dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Per proseguire la trattativa vennero poi allontanati politicamente tutti coloro che potevano rappresentare un ostacolo, come il ministro della Giustizia Claudio Martelli, sostituito con Giovanni Conso, che difatti non firmò il rinnovo del regime di carcere duro o “41 bis” per centinaia di mafiosi. La fine del “41 bis” era difatti una delle richieste avanzate da Totò Riina nel famoso “papello“.
Di Matteo chiama in causa anche l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale pochi giorni dopo la strage di Capaci, poichè questi, spiega, “ebbe un ruolo nella nomina ai vertici del dipartimento per le carceri mentre in sede di interrogatorio ha detto di non sapere nulla su quell’avvicendamento“, e se fosse vivo dovrebbe quindi rispondere di falsa testimonianza. Per il pm, poi, Leoluca Bagarella, attraverso Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, avrebbe cercato contatti con Silvio Berlusconi per arrivare ad un nuovo patto con lo Stato, ma il boss in aula ha preso la parola per smentire di aver avuto contatti con alcun politico.