Il diabete costa al Servizio sanitario nazionale una cifra estremamente ingente, pari a circa 10 miliardi di euro. Ogni paziente costa in media 2800 euro in più rispetto al restante 78% affetto da altre patologie. La malattia si attesta ad una diffusione mai registrata prima pari al 5,8% dell’intera popolazione, indice che dal 2007 è cresciuto del 13%. Questi i dati diffusi dall’Osservatorio ARNO Diabete del Cineca, realizzato anche in collaborazione con la Società italiana di Diabetologia.
Lo studio è stato effettuato su circa 544000 malati di diabete, con dati stratificati in circa 15 anni. “Ciò consente di avere un’idea precisa sull’andamento dei profili assistenziali, utile per arrivare a un’ottimale pianificazione sanitaria” ha spiegato Giulio Marchesini Reggiani, direttore della Struttura Dipartimentale di dietetica clinica del Policlinico Sant’Orsola di Bologna e responsabile dell’Osservatorio ARNO Diabete per la SID.
“Per risparmiare in modo intelligente e senza compromettere la salute delle persone con diabete occorre potenziare e razionalizzare l’assistenza diabetologica sul territorio, accorpando le competenze specialistiche in strutture in grado di curare i pazienti più complessi e di identificare le complicanze prima che diano segni clinici evidenti: così facendo si possono dimezzare i casi in cui le complicanze del diabete diventano di difficile gestione e richiedono l’ospedalizzazione.”
Al di la dei costi sarebbe anche preoccupantemente alto il numero di pazienti che non si cura adeguatamente: “solo il 64% dei diabetici esegue almeno una volta all’anno una misurazione dell’emoglobina glicata, prezioso indice dell’andamento e del grado di controllo della glicemia nel tempo. Lo screening della nefropatia diabetica, il più forte predittore di rischio cardiovascolare nei diabetici, viene effettuato una volta all’anno da meno di un terzo dei malati.”
Un altro grave problema riguarderebbe gli oltre 10000 pazienti immigrati non inclusi nella ricerca dell’ARNO in quanto stranieri, i quali generalmente hanno una versione meno dannosa rispetto a quella generalmente avuta dagli italiani, ma con maggiori variabili dovute alle differenze genetiche e quindi alla diversa suscettibilità alla dieta che hanno in Italia.