“Il governo non ha più la maggioranza. Dobbiamo prenderne atto e preoccuparci di ciò che sta accadendo sui mercati” queste le parole di un amareggiato Silvio Berlusconi che si rende finalmente consapevole del fatto che quella maggioranza assoluta guadagnata 20 giorni fa, è un miraggio rispetto a quel 308 scandito a voce chiara da Gianfranco Fini, ieri nel passaggio alla Camera dei Deputati del Rendiconto.
-8 scrive Berlusconi. Ed il senso della giornata di ieri è tutto in quel numero. Quegli 8 che Berlusconi chiama “traditori”, ma che tecnicamente, decretando così la fine della maggioranza e del Governo, sono 11: i deputati del Pdl Antonione, Gava, Malgieri, Destro, più Papa (ai domiciliari); assenti anche gli uomini del gruppo Misto Mannino, Pittelli, Sardelli, D’Alcontres e Versace; astenuto Stradella (Pdl).
L’opposizione non ha votato. Berlusconi si chiude a Palazzo Chigi con i fedelissimi per decidere il da farsi. “Governo senza maggioranza” titolavano poco dopo i siti dei maggiori quotidiani stranieri. E mentre il Premier e i suoi, ormai pochi, adepti, valutavano come agire, i mercati reagivano male, con lo spread tra il Btp e il bund che volava al record storico di 497 punti.
Nel tardo pomeriggio la matassa ha cominciato a districarsi. Berlusconi si dirige al Quirinale. Un’ora di colloquio con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo di che il Quirinale emette un comunicato: Berlusconi “ha manifestato la sua consapevolezza delle implicazioni del voto. Approvata la legge di stabilità, il premier rimetterà il suo mandato“. Nel frattempo dall’Europa continuano le pressioni: il commissario Rehn vuole il pareggio dei conti entro il 2013. Con qualsiasi governo.
Berlusconi dunque annuncia le dimissioni. Dopo la Legge di Stabilità tanto voluta dall’Europa, ma chiede subito “le elezioni”. Napolitano invece vorrebbe seguire l’iter classico previsto per la gestione delle situazioni di crisi: consultazioni volte a verificare l’esistenza di maggioranze alternative, come previsto dalla Costituzione.
Sulla scia del desiderio di voler andare alle urne si colloca però di traverso anche l’opposizione: Casini(Udc) e soprattutto Bersani(PD), che sebbene preferirebbe andare alle urne, non potrebbe dir no ad un governo tecnico di larghe intese guidato con ogni probabilità da Mario Monti.
Una cosa è certa. L’impegno, almeno formale, di Berlusconi è preso. Dimissioni al termine delle consultazioni e valutata la posizione di ogni forza politica di maggioranza e di opposizione. Sebbene quella del Premier sia chiara: andare subito al voto.
In serata, poi, prendeva consistenza, nell’idea di andare alle urne quanto prima, la volontà di lanciare la candidatura di Angelino Alfano. Berlusconi si sbilancia molto con i suoi fedelissimi: si voterà a febbraio e Alfano sarà il nostro candidato. Ma le opposizioni alla strada del voto non mancano affatto: Bossi, favorevole al voto subito, non trova riscontro in Maroni, contrario. Anche nel Pdl, c’è chi, nel timore di una possibile ricandidatura di Berlusconi, vedrebbe meglio un passaggio di testimone all’opposizione, in modo da consentire ad Alfano di rafforzarsi. Idem per Scajola.
Insomma, è da valutarsi la reazione di tutti i parlamentari di fronte all’eventualità di andare alle urne aprendo, in caso contrario, alla possibilità di una maggioranza ampia, che completi la legislatura, attuando gli impegni assunti con l’Europa. Un dato è certo: con 308 voti per il Rendiconto, la maggioranza di Berlusconi non esiste più.