Trending
{"ticker_effect":"slide-h","autoplay":"true","speed":3000,"font_style":"normal"}
I morti sul lavoro che nessuno conta

I morti sul lavoro che nessuno conta

Lo chiamano “bollettino di guerra”. Così presente e da così tanto tempo da rendere le inaccettabili morti sul lavoro una quotidianità, tant’è che la vera notizia sarebbe di un mese passato senza alcuna vita persa. Purtroppo, la situazione è ancora peggiore – a contare, oltre ai morti nel corpo, persone uccise nell’anima e nella loro dignità.

Chi sono?

Persone perseguitate per aver denunciato attività fraudolenti sul posto di lavoro – i cosiddetti “whistleblowers”, ribattezzati da Raffaelle Cantone, ex Presidente dell’ANAC, “vedette civili in campo contro la corruzione”. Vittime di emarginazione e di violenza psicologica – il cosiddetto mobbing, che in certi casi diventa addirittura sistemico. Persone umiliate perché non sessualmente accondiscendenti, donne o uomini che siano. Tutti relegati al silenzio, puniti economicamente, calunniati professionalmente, diffamati sui mezzi di informazione e persino, in certi casi, trascinati in Tribunale – magari per gli stesi reati denunciati. Tutti invisibili, senza le garanzie e le protezioni che un esponente della criminalità organizzata ha in cambio della sua “collaborazione”, senza giornate dedicate e senza che qualcuno li ricordi in trasmissioni televisive, dichiarazioni pubbliche o manifestazioni di piazza.

Tutti protetti dalla legge, ma solo sulla carta.

La Legge Severino del 2012 è la prima a parlare delle segnalazioni ma solo nel settore pubblico, prevedendo la riservatezza – a certe condizioni – dell’identità del segnalante. Nel 2017, il nostro ordinamento accoglie la legge sui whistleblowers più volte richiesta dall’Unione Europea, dichiarando di voler proteggere i lavoratori che denunciano abusi, irregolarità e illeciti da demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti o altre ritorsioni punitive: una legge che, pur in Gazzetta Ufficiale e nella competenza esclusiva dell’ANAC da allora, ha lasciato senza riscontro e protezione così tante persone da vedere queste segnalazioni calare sensibilmente – solo nel 2020, di un terzo rispetto al 2019. Perché si parla spesso di “lotta alla corruzione”, “lotta alle mafie”, “lotta” a quello e a quell’altro ma, la volta che uno lo fa, ci si trova davanti a procedure lunghe anni e il totale abbandono di fronte alle rappresaglie. Questo 4 novembre, la notizia rilanciata da wired.it sul fatto che “L’Italia si è scordata di aggiornare la legge sul whistleblowing” e che la Direttiva UE da recepire entro il 17 dicembre è “ancora al palo”: nonostante tutto, speriamo sia la volta buona e, soprattutto, che quanto scritto venga anche applicato, con la stessa attenzione giustamente accordata alle vittime di violenza domestica.

Per quanto riguarda il mobbing, quest’anno lo Stato italiano ha finalmente accolto la Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla violenza e le molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra nel 2019: meglio tardi che mai, soprattutto se con questo testo si riconosce che è di violazioni dei diritti umani che parliamo, contro la dignità, la salute fisica e mentale, la libertà personale e sessuale e contro tutti i valori e beni primari tutelati dalla “Costituzione più bella del mondo”. Peccato che, vista la potenza del ricatto rispetto al bisogno di lavorare o di badare alla famiglia, poco più dell’1% trova anche la forza di denunciare: le rappresaglie arrivano molto più velocemente di qualsiasi macchina pubblica, persa nei moduli e nelle procedure, ad aggiungere al dramma del mobbing anche l’omertà.

Cosa succede quando, a vedersi infliggere tutte queste cose insieme, è la stessa persona?

Che passi anni tra il non poter lavorare e l’ammalarti, sotto l’attacco metodico di un sistema che ha deciso di compattarsi e sacrificarti – cancellando il tuo contratto, chiedendoti di restituire tutti gli stipendi ricevuti, mandandoti in giudizio da “infame” per gli stessi reati che hai denunciato e facendoti il vuoto intorno a suon di menzogne – per coprire i propri, maleodoranti misfatti, abusi sui minori inclusi.

Che l’aver scelto ciò che era giusto invece di ciò che era facile, l’aver detto un “no” di troppo all’uomo sbagliato e l’aver toccato gli intoccabili sono colpe per le quali pagare un prezzo alto come un’estorsione a vita.

Che, con l’aiuto di persone che senti dire “onestà”, un giorno porti all’attenzione del Parlamento, della Presidenza del Consiglio e dei Ministri competenti fatti e cifre sugli Istituti di Santa Maria in Aquiro, cioè una delle Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficienza (IPAB), e sul “grande affare” della Metro C, disturbando diversi interessi in giacca e cravatta mentre respingi sia inappropriate avances, sia l’invito a “dimetterti volontariamente”.

Che, un po’ di tempo dopo, lo stesso interlocutore che ti aveva sostenuto – trasformando le tue denunce in interrogazioni parlamentari e firmandole per primo – all’improvviso ti chiama “impresentabile”, concetto che giuridicamente non esiste a differenza di “incandidabile”, suggerendo per via del suo ruolo che tu sia “in odor di Mafia” alla vigilia di elezioni che ti vedono in corsa, evidentemente dalla parte sbagliata o comunque non gradita.

Che, con la forza della fede e del tuo senso di giustizia, cominci a raccontarlo – anche per dare voce a tutti quelli che, nel silenzio di tutta la retorica della “Repubblica fondata sul lavoro” o del Primo Maggio e dei diritti, vengono uccisi lentamente persino mentre scrivi.

Che, così, decidi di mettere il tuo inferno professionale e personale al servizio degli altri “invisibili”, che potranno trovare in te un interlocutore che sa capire e consigliare.

Che il tuo nome è Maria Capozza. Avvocato Rotale, Whistleblower, Web Reporter e Donna

4 commenti su “I morti sul lavoro che nessuno conta”

Lascia un commento