Anche Sanremo è, in una qualche misura, espressione della nostra società, o quantomeno di una parte della nostra società. È un fatto. Inutile prenderci in giro. Così come lo è (purtroppo) il Grande Fratello (visto e, in qualche modo, quindi apprezzato – nel senso più specifico del lemma – da migliaia di persone), Amici di Maria De Filippi, Uomini e donne, piuttosto che Le Invasioni Barbariche e Ballarò. Perché, dunque, boicottare il Festival della canzone Italiana a tutti i costi?
Ora, va bene mormorare sulla farfalla di Belen Rodriguez, discutere a proposito del monologo di Adriano Celentano, giudicare la performance di Gianni Morandi, ma non bisogna, in ogni caso, dimenticare che i cantanti, esibiti sul palco dell’Ariston, sfoggiano un’arte, una passione e comunque svolgono un lavoro in cui credono. Spesso con fermezza, rigore e tenacia. Talora, peraltro, con una gran voce.
Emma, la ex concorrente di Amici, è, come ormai noto, la vincitrice di Sanremo 2012 con ‘Non è l’inferno’, Noemi, la sirenetta dai capelli rossi, al secondo con ‘Sono solo parole’, Arisa e la sua semplicità, è al terzo posto con ‘La notte’. Se ai brani di cui sopra aggiungessimo ‘Nanì’ di Pierdavide Carone e Lucio Dalla e ‘E tu lo chiami Dio’ di Eugenio Finardi, potremmo delineare il filo conduttore del Festival: esistenzialismo e incertezze. Ci si è interrogati, sul palco fiorito dell’Ariston, sul significato dell’essere e su quello, più generale, dell’esistenza: di noi, di Dio, del tempo, del mondo.
Sanremo 2012, almeno ai miei occhi, si è concretato in una melodica ricerca ontologica sull’essere. Il che mi sembra possa ragionevolmente spiegarsi alla luce di quanto, nostro malgrado, stiamo vivendo oggi.
Emma, da un lato, racconta i dubbi di un padre, con un vissuto significativo, rispetto al futuro del figlio trentenne, precario, che non è in grado di poter liberamente scegliere un giorno di sposarsi né di garantirsi il pane quotidiano, dall’altro, s’interroga se sia più facile morire piuttosto che affrontare l’inferno della vita. Lei, da giovane audace, nutre ancora una speranza. Si augura, infatti, che l’istinto di sopravvivenza, alla fine, prevalga e che vinca, in buona sostanza, il diritto alla vita. Lo credo anch’io. Ma la situazione non è semplice, si sa.
Arisa, con voce incantevole, canta la fine di una storia, di un dolore che cresce e si manifesta soprattutto di notte e delle relative conseguenze, sia fisiche che psicologiche: ‘la testa parte e va in giro, in cerca dei suoi perché’.
Noemi narra le difficoltà nel rapporto fra due persone, legate fra loro, le cui parole tuttavia non bastano per superare la crisi (‘sono solo parole’). L’ex cantante di X-Factor 2 sottolinea, inoltre, l’insistenza dell’uomo nel non volere accettare l’amara realtà e nel fingersi, conseguentemente, felice di una vita che non è come vuole. L’illusione di una apparente beatitudine e la speranza che il tempo guarisca tutte le ferite mi pare motivo ricorrente nelle relazioni interpersonali. Ma il tempo, da solo, non basta.
Sulla scorta delle canzoni esistenziali, s’inseriscono i brani di Carone con Dalla e Finardi.
I primi, con una intensità degna del grande Lucio, muovendo dall’amore (unilaterale) fra un uomo la prostituta Nanì, affrontano il tema della solitudine dell’uomo, che vive in ‘un mondo senza eroi’, e delle sue incertezze. Lui, non a caso, chiede alla donna ‘Dimmi perché mi hai chiesto di andar via, quando ti ho detto vieni via con me?’
Finardi, infine, riflette sul dolore, sul senso della vita e sull’esistenza di Dio.
Come possiamo, in conclusione, ancora dire che questo Sanremo è stato privo di contenuti? Forse qualche brano meriterebbe – anzi – di essere letto in filigrana.