Oggi, 16 marzo, ricorrono i 37 anni dal rapimento dell’allora presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, avvenuto, appunto, il 16 marzo 1978 a Roma, in via Mario Fani, durante il quale vennero uccisi cinque agenti della sua scorta. Solo nelle ultime settimane, e dopo lunghi silenzi, a così tanti anni di distanza da quei fatti che hanno inciso profondamente nella storia del Paese, si sono aggiunte nuove rivelazioni e nuovi reperti sono stati improvvisamente trovati o più probabilmente “ritrovati”. La prima di queste rivelazioni è la presunta confessione al Presidente Moro nel covo stesso di Via Montalcini, da parte di un allora giovane prete, Don Mennini ( ora Monsignore), storia già raccontata dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, negata dall’interessato, ma con un ultima precisazione “machiavellica “: la confessione è segreta, non può essere violata neanche dal Papa stesso”. Cioè a dire: “Se anche l’avessi fatto, non potrei dirvelo“.
Perché prima negare e poi aggiungere un particolare che sembra dire l’esatto contrario? Anche le rivelazioni, ormai datate, di Cossiga erano ambigue. Se l’allora ministro dell’Interno fosse stato a conoscenza di questa storia avrebbe avuto naturalmente il dovere di far pedinare il sacerdote. Lo fece? O ne venne dunque a conoscenza dopo? Ancora più strano è che ora qualcuno improvvisamente ritrovi 17 cassette ( sembra che all’origine fossero 18 ed una dunque si sia persa) già sommariamente esaminate a suo tempo. Grassi, componente della Commissione d’inchiesta, ha spiegato: “Le cassette sono state ritrovate tra i reperti del covo brigatista di via Gradoli grazie al lavoro della dottoressa Antonia Giammaria, magistrato distaccato presso l’organismo parlamentare.” Davanti alla Commissione stragi Valerio Morucci, uno dei brigatisti, aveva spiegato che le cassette con gli interrogatori di Moro furono distrutte probabilmente sovraincidendole.
E le cassette ritrovate di via Gradoli sono in gran parte sovraincise. L’avvocato (delle vittime) ha spiegato perché sono così interessanti queste cassette e perché in particolare la sua attenzione e i suoi timori riguardano la n. 13: “Nella prima parte ( della 13) vi sono canti rivoluzionari, così come nella seconda parte, ma per alcuni giri l’ufficiale di Polizia del tempo annotava: “voce maschile che parla con compagni per discutere di alcuni articoli”. Quindi quelle parti non sono sovra incise! Saranno ora gli uomini del Ris a cercare di decifrare cassette probabilmente già molto manipolate, con la speranza di rinvenire almeno parte dei colloqui di Moro. Un altro dei punti controversi della vicenda è la presenza di altri soggetti, non direttamente delle BR, sulla scena del rapimento. Quali erano questi soggetti? Da alcuni anni ben due testimoni, uno addirittura un poliziotto ora non in servizio, Giovanni Intravedo, hanno insistito sulla presenza di una moto Honda con due uomini armati.
E già nel 1992 un appartenente alla ‘ndrangheta, Saverio Morabito, pentito, riferi’ al sostituto procuratore Alberto Nobili, che in Via Fani sarebbe stato presente un uomo della ‘ndrangheta calabrese, di un certo livello, Antonio Nirta. Perché questo particolare è importante e diciamo sarebbe verosimile? Perché Antonio Nirta era un killer particolarmente esperto di armi e le armi in Via Fani sono state usate con una bravura eccessiva. Infatti risulta quasi incredibile che nella sparatoria non sia stato neanche scalfito il Presidente Moro mentre sono uccisi sul colpo quattro poliziotti esperti ( il quinto morirà al Gemelli poco dopo).Vi sarebbero infine dubbi sulla traiettoria dei colpi, che secondo Mario Moretti, presente sul luogo, quindi artefice del sequestro, oltre che ideologo, sarebbero stati sparati soltanto da un lato.