I viaggi nello spazio, a quanto pare, allungherebbero la vita. La scoperta è avvenuta grazie al team di ricerca del progetto “ICE-FIRST“, formato da scienziati degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Francia, del Canada e del Giappone. L’esperimento ha avuto come protagonista un verme in particolare, il Caenorhabditis Elegans, e la scoperta potrebbe aiutare a scoprire come vivere più a lungo.
L’esperimento è iniziato nel 2004, per cercare di studiare la perdita di tessuto osseo e di massa muscolare, che avviene negli astronauti dopo lunghi viaggi nello spazio. Ciò che è emerso è stata una sorta di inibizione della produzione delle proteine tossiche che, solitamente, si depositano con l’invecchiamento dei muscoli.
La decisione di effettuare l’esperimento sul Caenorhabditis Elegans, piuttosto che su un altro tipo di verme, sta nel fatto che questa specie è, prima di tutto, la sostituta perfetta per studiare i cambiamenti a lungo termine sulla fisiologia umana – perché accusa della perdita di massa muscolare, nella maggior parte delle situazioni in cui la subisce anche il corpo umano – poi, 20 mila geni hanno le stesse funzioni di quelli degli esseri umani e, per finire, è in grado di vivere e di riprodursi nello spazio per 6 lunghi mesi.
“Noi abbiamo identificato 7 geni, che subivano una sottoregolazione nello spazio e la cui inattivazione aumentava la durata della vita in condizioni di laboratorio. Uno dei geni che abbiamo identificato codifica l’insulina che, a causa del diabete, è risaputo essere associata al controllo metabolico. Nei vermi, nelle mosche e nei topi, l’insulina è anche associata con la modulazione della durata della vita. La maggior parte di noi sa che i muscoli tendono a ridursi nello spazio. Questi ultimi risultati suggeriscono che si tratti quasi certamente di una risposta adattiva e non di una patologica. Contrariamente alle aspettative, i muscoli nello spazio potrebbero invecchiare meglio che non sulla Terra. Forse, il volo spaziale potrebbe anche rallentare il processo di invecchiamento“.
Ha spiegato Nathaniel Szewczyk, scienziato dell’Università di Nottingham.