Tre studentesse di Ventimiglia, in provincia di Imperia, di età compresa fra i 14 e i 15 anni, si prostituivano da circa un mese per trenta o cinquanta euro, per arrotondare la paghetta. Sembra che l’idea sia venuta loro sentendo del giro di baby prostitute a Roma. E’ stato un cliente di trent’anni a denunciare il tutto ai carabinieri di Ventimiglia, dopo aver scoperto l’età della ragazza, una volta giunto sul luogo dell’incontro: “Quando ho visto che era una bambina, mi si è gelato il sangue e sono scappato. Quella ragazzina non l’ho fatta neppure salire in auto” ha spiegato.
L’uomo aveva risposto ad un annuncio su un noto sito di incontri, sul quale le tre amiche si proponevano, senza rivelare la loro età. Ora vi sono cinque persone indagate per sfruttamento della prostituzione minorile, reato che prevede pene dai due ai cinque anni, dato che in questo caso può essere contestata l’aggravante che gli atti sessuali sono stati compiuti con minori di sedici anni. Secondo le indagini, coordinate dal tribunale dei minori di Genova, gli incontri con i clienti avvenivano nelle loro auto, dopo l’orario di scuola, in luoghi pubblici come piazzali o zone isolate dell’entroterra, e le giovanissime studentesse, in0ltre, vendevano online autoritratti a sfondo sessuale.
I poliziotti hanno inoltre sequestrato i computer e i telefonini cellulari delle ragazze, dai quali hanno ricavato una lista di centinaia di nomi, identificando fra essi anche clienti fuori provincia e nel Piemonte. Gli accertamenti sono tuttora in corso, e l’inchiesta potrebbe estendersi ad altre persone. Non è stato invece preso nessun provvedimento verso i genitori, che non erano a conoscenza dell’attività delle figlie, che riuscivano sempre a dare delle scuse plausibili riguardo la provenienza del denaro in più che si ritrovavano. Sembra si tratti di famiglie per bene, senza particolari disagi sociali.
Le baby-prostitute utilizzavano il denaro per acquistare vestiti o cosmetici, frequentare i locali della Riviera e andare dal parrucchiere. Le ragazzine inserivano gli annunci dando nomi falsi e senza usare i social network, per evitare che si venisse a sapere fra gli amici, e dicevano ai genitori che uscivano con le amiche o andavano al bar, mentre invece si recavano all’appuntamento fissato con i loro clienti. Una volta portate in caserma, le tre sono scoppiate a piangere, mostrandosi pentite e fornendo indicazioni per la prosecuzione delle indagini, e hanno ammesso davanti ai genitori: “In che guaio ci siamo cacciate”.
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