Aveva rivolto a un dipendente uno degli insulti più classici ma un datore di lavoro non se lo può permettere. Il dipendente, di regola, non può rispondere “con linguaggio altrettanto offensivo, anche se molto diffuso: l’offesa del datore di lavoro va qualificata pertanto come aggressione verbale.” I giudici della corte d’appello di Milano, sezione lavoro, hanno così accolto il ricorso presentato da un autotrasportatore milanese condannando così il suo capo a un risarcimento di 500 euro per averlo definito “testa di cazzo”.
L’imprenditore era già già stato condannato per quella che in primo grado era stata considerata come ingiuria e in secondo, invece, come un’aggressione verbale. La causa era stata promossa da un autotrasportatore, che al momento delle presentazione delle dimissioni si era visto insultato dal suo capo con l’infelice espressione: “Testa di cazzo”. L’autotrasportatore, quindi, aveva avviato la causa chiedendo sia il riconoscimento del suo status di dipendente, nonostante avesse contratti di lavoro autonomo, sia il risarcimento per l’aggressione verbale. In primo grado era stato negato il riconoscimento e stimato un risarcimento di soli 150 euro per l’offesa verbale ricevuta, ritenuta solamente ingiuriosa. Un risarcimento non equo all’offesa subita, così i giudici della Corte d’Appello hanno riconsiderato l’accaduto e stabilito una sentenza ben più pesante per l’imprenditore: “Si può infatti considerare il fatto già evidenziato dal primo giudice che certa terminologia è molto diffusa in qualsivoglia ambiente sociale, ma che nel caso in esame la frase è stata pronunciata dal datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente, il quale si trova, di regola, nelle condizioni di non poter rispondere con un linguaggio altrettanto offensivo, anche se molto diffuso”.
La sentenza ha quindi stabilito che vengano versati al dipendente 11 mila euro come differenze retributive ed ha anche corretto al rialzo con una somma pari a 500 euro il risarcimento dovuto dall’imprenditore per l’insulto verbale.