“Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”. Queste le parole proferite da Rita Levi Montalcini in un’intervista concessa a Wired, in occasione del compimento del suo 100esimo anno di età. Si è spenta oggi, 30 dicembre 2012, a Roma, all’età di 103 anni, una delle personalità più eccelse che il Belpaese e il mondo abbiano conosciuto, icona di intelligenza, cultura e umanità che si intrecciano all’unisono.
Nata a Torino il 22 aprile 1909, Rita Levi Montalcini è stata, senza ombra di dubbio, la più grande scienziata italiana. Ha ricevuto il Premio Nobel per la medicina e fisiologia nel 1986 ed è stata la prima donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze. Dal 2001 era senatrice a vita, come previsto dalla Costituzione, per aver “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”.
La famiglia della scienziata era ebrea. Il padre, Adamo Levi, era un ingegnere, la madre, Adele Montalcini, era una pittrice. Gemella di Paola, Rita e la sorella si divisero i talenti dei genitori. Paola eredità il talento materno che la portò a diventare una grande pittrice, Rita, invece, dal padre prese l’amore per il mondo della scienza. Sebbene contro la volontà del padre, Rita si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino e qui si laureò, con il massimo dei voti, nel 1936 per poi specializzarsi, successivamente, in neurologia e psichiatria, sebbene ancora incerta se dedicarsi alla ricerca o all’attività medica.
Essendo ebrea sefardita, le leggi razziali di Benito Mussolini la spinsero a partire a Bruxelles, salvo poi ritornare a Torino prima dell’invasione del Belgio da parte dei nazisti. Riuscì ad allestire un piccolo laboratorio di ricerca nella sua stanza da letto, giacché, proprio perché ebrea, non avrebbe più potuto frequentare l’università. Dopo i bombardamenti degli alleati si rifugiò in campagna, ma dopo l’8 settembre 1943, per evitare i rastrellamenti si recò a Firenze per non essere arrestata e deportata in Germania.
Dopo la liberazione le fu offerta, nel 1947, una cattedra alla Washington University di St.Louis. Sebbene cera di rimanervi pochi mesi, in realtà, la sua carriera qui durò oltre 30 anni. Fu proprio qui che fece la sua scoperta più importante: giunse all’isolamento di una frazione nucleoproteica tumorale e all’identificazione di questa sostanza presente in quantità notevoli nel veleno dei serpenti e nella ghiandola salivare dei topi. Si trattava di una proteina sintetizzata da quasi tutti i tessuti e in particolare dalle ghiandole esocrine, grazie alla quale riuscì ad accertare la molecola proteica tumorale chiarificandone i meccanismi di crescita e di differenziazione cellulare. Fu designata come Nerve Growth Factor (NGF), di fondamentale importanza per la comprensione della crescita delle cellule e degli organi e importantissima per la comprensione di malattie come il Cancro o l’Alzheimer e il Parkinson.
Nel 1977 Rita tornò in Italia collaborando, tra gli anni ’60 e ’70, in numerose occasioni con il Cnr. Nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la medicina insieme al suo studente biochimico Stanley Cohen. Nella motivazione del Premio si legge: “La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo”. Sebbene si fosse sempre dichiarata atea, donò parte del denaro del premio per la costruzione di una sinagoga a Roma.
È stata membro delle maggiori accademie scientifiche internazionali, come l’Accademia Nazionale dei Lincei per la classe delle Scienze Fisiche, la Pontificia, Accademia delle Scienze, l’Accademia nazionale delle Scienze, la National Academy of Science statunitense e la Royal Society.
“L’umanità è fatta di uomini e donne e deve essere rappresentata da entrambi i sessi”. Sentendosi una donna libera, ma cresciuta in un mondo vittoriano, ha dichiarato di averne risentito. Si è dedicata completamente alla scienza e per questo ha anche deciso di rinunciare ad un marito e alla possibilità di costruirsi una famiglia.
La sua autobiografia, l’Elogio dell’Imperfezione, venne pubblicata nel 1987 e fu ampliata con ampliata poi con il Cantico di una vita (2000), che contiene alcune delle numerose lettere che scambiò negli anni con la sua famiglia e in particolar modo con la sua gemella Paola, alla quale era legatissima. Sebbene molto anziana, non ha mai abbandonato la ricerca e lo studio, rappresentando prima, oggi e per sempre un modello di ispirazione, coraggio e dedizione. Teniamo a mente le sue parole: “Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella “zona grigia” in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”.