Un’importante operazione è stata condotta questa notte dagli uomini della Guardia di Finanza in provincia di Napoli, che ha visto scattare le manette a sessanta persone con le accuse di associazione camorristica e riciclaggio di denaro. L’inchiesta mira a smantellare una fitta rete di interessi che vedrebbe legati un noto gruppo imprenditoriale e il clan camorristico dei Fabbrocino, attivo sopratutto nella zona di Nola e nell’area dei paesi vesuviani. Oltre agli arresti, la Guardia di Finanza ha sequestrato beni per un valore complessivo di un miliardo di euro.
Il gruppo imprenditoriale coinvolto è Ragosta, che ha affari nel settore degli alimentari, delle compravendite immobiliari, della gestione di alberghi e dei materiali ferrosi su tutto il territorio nazionale. L’inchiesta vede coinvolti anche funzionari pubblici di rilievo, sedici giudici tributari, otto tra funzionari e impiegati delle commissioni tributarie, un garante del contribuente della Campania e un funzionario dell’agenzia delle entrate. Delle sessanta ordinanza di custodia cautelare, ventidue persone sono finite in carcere, venticinque agli arresti domiciliari, mentre per altri tredici è scattato il divieto di dimora. Le indagini sono iniziate nel 2008 nei confronti di ventisette società di Napoli e provincia, tutte riconducibili al medesimo gruppo imprenditoriale campano: le verifiche fiscali riguardavano emissioni di fatture inesistenti e mancati versamenti all’erario.
Fino a qui ha operato la Guardia di Finanza, ma a coordinare il tutto c’è l’Antimafia. che grazie anche al contributo di numerosi collaboratori di giustizia, aveva avviato un fascicolo per indagare sui rapporti sospetti tra i fratelli titolari del gruppo imprenditoriale Ragosta e il clan Fabbrocino, che ha condotto gli inquirenti in diversi paesi esteri quali Belgio, Lichtenstein e Lussemburgo, fino ad arrivare in Svizzera, nelle cui banche confluiva il denaro di provenienza illecita. Attraverso le intercettazioni è stato scoperto una sorta di “mercato delle sentenze”, in cui i giudici tributari venivano corrotti per aggiustare le sentenze, permettendo addirittura in alcuni casi che a redigerle fossero i privati: grazie a queste sentenze truccate i soldi sottratti allo Stato non finivano al Fisco ma tornavano nelle mani degli accusati.