“La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni“. Parole di un uomo italiano, a cui non mancò il coraggio di rischiare la propria vita in nome di una sola parola: giustizia.
Parliamo di Giovanni Falcone, considerato un vero e proprio eroe nazionale per il suo impegno nella lotta alla Mafia, ponendosi anche come straordinario esempio di fiducia e dedizione nei confronti delle istituzioni. Mafia. Cos’è la Mafia? Una parola che nasconde tanto. Inizialmente tale tarmine veniva usato per indicare un’organizzazione criminale originaria della Sicilia, precisamente Cosa Nostra, finendo per diventare nota al mondo durante il processo a Joe Valacchi, primo pentito della mafia italoamericana. L’effettiva origine del vocabolo rimane oscura, ma la prima volta che venne in uso per indicare un’organizzazione malavitosa è in un rapporto del capo procuratore di Palermo nel 1865, Filippo Antonio Gualterio.
Analisi più moderne del fenomeno, considerano la mafia una “organizzazione di potere”, ancor prima che un’organizzazione criminale, evidenziando così come la sua ragione d’essere sia riscontrabile prima che nei proventi delle attività illegali, nelle alleanze e collaborazioni con funzionari dello Stato, soprattutto politici e con la partecipazione anche di alcuni ceti della popolazione. Ma a spiegarcelo meglio è stato probabilmente lo stesso Giovanni Falcone che nella relazione finale della Commissione d’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1875/76 scrive che: “La mafia non è un’associazione che abbia forme stabili e organismi speciali… Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male”.
Nato nel 1939 a Palermo, dopo la laurea in giurisprudenza e il concorso in magistratura, nel 1964 Giovanni Falcone divenne sostituto procuratore di Trapani, dove rimase per 12 anni maturando un profondo amore per il settore penale del diritto: “Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava”, disse lo stesso magistrato. All’indomani dell’attentato che costò la vita al giudice Cesare Terranova del 25 settembre 1979, Falcone cominciò a lavorare all’ufficio Istruzione, dove il Consigliere Chinnici gli affidò le indagini relative al caso Rosario Spatola, in un processo che investiva anche la criminalità statunitense.
Da qui Falcone cominciò a maturare la convinzione che “nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorresse avviare indagini patrimoniali e bancarie” oltre che ricostruire un quadro organico e una visione complessiva; elementi sino ad allora mancanti e che avevano portato solo a ingiustificabili assoluzioni. Quando nel luglio 1993 Chinnici fu ucciso, Antonino Caponnetto lo sostituì, con l’intento di creare le condizioni più favorevoli ai fini della risoluzioni dei casi legati alle indagini di mafia.
Si costituì così il cosiddetto pool antimafia, composto dallo stesso Caponnetto, Falcone, i giudici Di Lello e Guarnotta, e da Paolo Borsellino. Una svolta nella conduzione delle indagini volte non solo alla conoscenza di determinati fatti di mafia, ma anche alla individuazione della struttura di Cosa Nostra fu rappresentato dall’interrogatorio al “pentito” Tommaso Buscetta. Drammatiche vicende, come l’uccisione dei funzionari di polizia Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, ebbero luogo prima di giungere alla storica sentenza di condanna nei confronti di Cosa Nostra emessa il 16 dicembre 1987 dalla Corte di assise di Palermo, avente come presidente Alfonso Giordano, dopo ventidue mesi di udienze e trentacinque giorni di riunione in camera di consiglio. L’ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati era stata depositata dall‘Ufficio istruzione agli inizi di novembre di due anni prima. 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare.
Nel dicembre 1986 Borsellino venne nominato Procuratore della Repubblica di Marsala, mentre Caponnetto si apprestava a lasciare il suo incarico per ragioni di salute e per limiti di età. Alla sua sostituzione furono candidati sia Falcone che Antonino Meli. Il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo una non certo poco accesa discussione, nominò Meli, motivandola come un’apparente scelta dettata dall’anzianità di servizio, ma che venne dai più considerato come un non troppo celato tentativo di rompere il pool investigativo.
Le previsioni di Paolo Borsellino furono reali: non solo il lavoro di Meli fu inteso a riportare i progressi fatti nei confronti di Cosa Nostra ad una decina di anni addietro, ma addirittura, dopo essersi mostrato in aperto contrasto con Falcone, sciolse ufficialmente il pool antimafia. Lo stesso Borsellino richiamò l’attenzione sul fatto che in tal modo Giovanni Falcone era diventato un più facile bersaglio per la mafia, dal momento che la sua perdita aveva dato adito alla convinzione che il magistrato non fosse così stimato come si pensava. Lo stesso Falcone riuscì poi a scampare ad un attentato il 21 giugno 1989, perpetrato dai sicari di Totò Riina e di altri sicari ritenuti mandanti.
Falcone dichiarò che probabilmente a volere la sua morte era qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso dichiarando a tal proposito: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Una settimana dopo l’attentato il Consiglio superiore decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel frattempo, con l’inasprirsi dei rapporti con il Procuratore Giammanco, Falcone accolse l’invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, C. Martelli, che aveva assunto l’interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l’onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale.
Dal marzo del 1991 alla morte si aprì così un periodo caratterizzato da una attività intensa, volta a rendere più efficace l’azione della magistratura nella lotta contro il crimine, rinnovando il sistema attraverso la razionalizzazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, e il coordinamento tra le varie procure. In questo senso, la costituzione di procure distrettuali facenti capo ai procuratori della Repubblica parve la soluzione più idonea. Ma nasceva l’esigenza di un coordinamento di livello nazionale.
Fu così istituita nel novembre del ’91 la Direzione nazionale antimafia, a proposito della quale Falcone dichiarò: “Io credo che il procuratore nazionale antimafia abbia il compito principale di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità della polizia giudiziaria e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni. Ritengo che questo dovrebbe essere un organismo di supporto e di sostegno per l’attività investigativa che va svolta esclusivamente dalle procure distrettuali antimafia”.
Relativamente a questi compiti, la sua candidatura fu ostacolata dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ruolo di “Superprocuratore” a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose mai raggiunto sino ad allora. Ma si riaprirono le polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della Magistratura ed una subordinazione di essa al potere politico. Ma il tempo non è bastato e il 23 maggio 1992, ore 17:58, ebbe luogo quella che il mondo conosce come la “strage di Capaci”. La morte, l’orrore, l’infamia.
Mille chili di tritolo, fatti brillare a distanza, sventrarono lo svincolo autostradale di Capaci uccidendo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ricordare le esatte dinamiche della sua morte, non servirebbe a molto. Conta quel resta, conta il ricordo di un uomo che quando ha dovuto chinarsi, ha dovuto arrendersi, non lo ha fatto per volontà propria, che ha sì subito l’odio e la vendetta di un sistema malato, ma che in fondo non è mai stato messo a tacere. D’altronde fu lo stesso Falcone a dire: “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola“.
57 giorni dopo la morte di Falcone, perse la vita anche Paolo Borsellino, com’è noto, per quello che fu un anno terribile, di stragi, di attacco alla giustizia e allo Stato nella sua essenza più pura. Restano le idee, resta il pensiero, resta il ricordo di uomini che, a 20 anni dalla loro morte, hanno radicato un’idea di coscienza e lotta continua (anche nell’anonimato) alla Mafia e alle ingiustizie in generale. Gli uomini passano, le idee restano. Onore a chi ha avuto il coraggio di portarle avanti, anche a rischio della propria vita come ha cantato anche Fabrizio Moro nella canzone Pensa, un invito alla riflessione contro ogni forma di violenza e contro la mafia: “Ci sono stati uomini che sono morti giovani, ma consapevoli che le loro idee sarebbero rimaste nei secoli, come parole iperbole …Intatte e reali come piccoli miracoli ..Idee di uguaglianza idee di educazione contro ogni uomo che eserciti oppressione, contro ogni suo simile contro chi è più debole, contro chi sotterra la coscienza nel cemento..”
Non mancheranno manifestazioni in tutta Italia per celebrare il grande Falcone, a 20 anni dalla sua morte. Pensiamo, però, che al di là di fiaccole, di video, di fiori, la celebrazione più grande sia il lavoro di tutti coloro che si adoperano nel continuare una battaglia contro il male radicato nelle Istituzioni, portando avanti le idee di due piccoli grandi uomini della Sicilia, giacché come amava ripetere lo stesso Falcone, citando J.F. Kennedy: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana”.