La Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale, ha confermato l’assoluzione in primo grado per l’ex generale dei Carabinieri Mario Mori e per l’ex colonnello Mauro Obinu, ora in servizio all’Aisi, accusati dalla Procura di Palermo di favoreggiamento aggravato perché, secondo il colonnello Michele Riccio, avrebbero fatto fallire un blitz che, il 31 ottobre 1995, nelle campagne di Mezzojuso, avrebbe potuto portare all’arresto del superlatitante mafioso Bernardo Provenzano. L’accusa, rappresentata dal procuratore generale Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, aveva chiesto una condanna a quattro e mezzo per Mori e a tre anni e mezzo per Obinu, circa la metà, quindi, di quanto chiesto in primo grado dai pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia (nove anni per Mori, sei e mezzo per Obinu), perché, a sorpresa, in appello la procura generale aveva cambiato il capo d’imputazione, escludendo l’aggravante del favoreggiamento a Cosa Nostra e quella di aver agito in virtù di un patto stipulato nell’ambito della trattativa Stato-mafia, avvenuta fra il 1992 e il 1993, e mantenendo, invece, l’aggravante di aver commesso il reato in qualità di pubblico ufficiale.
L’accusa voleva in tal modo sganciare questo procedimento proprio dal processo sulla trattativa Stato-mafia, in corso davanti alla corte d’assise di Palermo, che vede l’ex generale accusato di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato sempre per il mancato arresto di Provenzano, mentre per la difesa, rappresentata dagli avvocati Basilio Milio ed Enzo Musco, si tratta di “una grande contraddizione”. Scarpinato, in aula, aveva sostenuto l’esistenza di “un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mori si è reso protagonista dal periodo delle stragi fino ai tempi in cui si svolge la vicenda oggetto di questo processo”, citando fra queste la mancata perquisizione del covo di Totò Riina in via Bernin, il mancato arresto del boss Nitto Santapaola a Terme Vigliatore nel 1993, fino, appunto, al mancato blitz per catturare Provenzano, e aveva descritto Mori come “un soggetto dalla doppia personalità e dalla natura anfibia, che ha sempre deviato dalle regole per assecondare interessi extraistituzionali”.
Il procuratore generale, inoltre, aveva cercato di far entrare nel dibattimento elementi che dimostrassero i legami di Mori con ambienti dei Servizi deviati e della destra eversiva, ma la Corte non aveva ammesso le nuove carte. L’ex generale, nelle sue ultime dichiarazioni prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio per tre giorni, si era difeso ricordando anche l’assoluzione nel processo per la ritardata perquisizione del covo di Totò Riina, e aveva detto: “Il mio comportamento è stato sempre lineare“. Ieri, invece, ha commentato quest’altra assoluzione affermando: “Mi è stato restituito l’onore come ufficiale dei carabinieri e come uomo“.
Il suo legale, Basilio Milio, ha affermato invece: “Speriamo che questa sentenza segni la fine di un accanimento giudiziario nei confronti del generale Mori che va avanti da anni“. I giudici palermitani hanno però inviato alla procura, per “valutare eventuali profili di falsa testimonianza“, gli atti del processo riguardanti le deposizioni di sei carabinieri dei Ros, fra cui il colonnello Sergio De Caprio, noto come “capitano Ultimo”, sul presunto mancato blitz di Terme Vigliatore dell’aprile 1993, quando gli uomini del Ros, credendo di aver scambiato un cittadino comune per il boss latitante Pietro Aglieri, diedero luogo ad un inseguimento e ad una sparatoria. Secondo l’accusa, invece, sarebbe stata un’azione volta ad avvertire il boss ricercato Nitto Santapaola della presenza di investigatori nei pressi del suo nascondiglio.